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Le origini della dipendenza affettiva

By 17 Ottobre 2022 No Comments

di Giuseppe Parisi

Amare, uno dei primi verbi che impariamo a coniugare quando siamo piccoli.

Ma il significato profondo di questo termine, è altrettanto semplice da comprendere? 

Spesso viene concepito, l’amare, come una delle esperienze più appaganti, complete, arricchenti e meravigliose per l’essere umano. Ma può anche diventare tutto il contrario, un’esperienza connotata da forte dolore, sofferenza e dipendenza patologica.

Marazziti (2005) definisce la dipendenza affettiva come una fase acuta di innamoramento, una pulsione fusionale, che si protrae per un periodo eccessivamente lungo, nel quale la parte dipendente della coppia non riesce a fare a meno del proprio partner, a costo letteralmente di sottomettersi o mettere i propri bisogni da parte.

Ciò che salta agli occhi sin da subito è l’impossibilità da parte della persona dipendente di separarsi, staccarsi, individuarsi rispetto ad una figura che assume una grande valenza affettiva, come una sagoma senza vita che rivive solo nel contatto con l’altro.

Robin Norwood (2007), infatti, nel suo Donne che amano troppo esplicita un paragone tra la sintomatologia della dipendenza da alcol e quella della dipendenza dalle relazioni affettive. I sintomi psico-fisici dell’astinenza sono praticamente gli stessi, a testimonianza di quanto la sofferenza provata dai soggetti dipendenti sia realmente tangibile e visibile ad occhio nudo. 

Non è dunque un semplice, comune, soffrire per amore; è una vera e propria impossibilità a staccarsi dall’altro, visto come parte integrante di sé, nonché il difficile approdo ad un conseguente lavoro del lutto (Freud, 1917).

Winnicott (1952), con il suo fondamentale contributo sull’holding materno, ovvero la capacità della madre di fungere da contenitore delle angosce espresse dal bambino, ci mostra l’importanza dell’abbraccio, sia metaforico che non, come preludio necessario per l’unificazione del sé. La mancanza di tale esperienza affettiva genererebbe vissuti infantili di abbandono e trascuratezza. Mancando il contenimento necessario, l’abbraccio che riscalda, la presenza costante della figura genitoriale, la base solida, il bambino non sarà in grado di passare da una dipendenza assoluta ad una graduale indipendenza, con il fine ultimo di approdare alla più evoluta autonomia in età adulta. 

Nelle narrazioni di vita di soggetti che presentano una difficoltà a separarsi e legami instabili, troviamo spesso il racconto di bambini affettivamente lasciati a loro stessi, in balia di emozioni incomprensibili e difficilmente trasformabili in pensieri (Bion, 1962) che convivono con un desiderio enorme d’amore solo sfiorato, mai del tutto appagato. 

Nella cultura occidentale il bisogno d’amore è ancora stigmatizzato, poiché mette il soggetto in una condizione di passività, di attesa, in aperto contrasto con il mito attuale del tutto e subito, e in particolare dell’autonomia e indipendenza a tutti i costi. Un esempio diverso viene dalla cultura orientale, grazie ad uno psicoanalista giapponese, Takeo Doi (2001), il quale nel suo testo Anatomia della dipendenza ci rende consapevoli del fatto che effettivamente l’essere umano ha bisogno di un’enorme dose di amore ricevuto, al fine di poter apprendere la capacità di amare. Questo esprime l’amae, sostantivazione del verbo nipponico amaeru, il quale indica proprio una ricerca dell’amore per sé, un bisogno personale che non può essere soddisfatto se non nella relazione con la figura di accudimento. È proprio la relazione di cura a rifornire la persona del cibo affettivo di cui necessita in età infantile. 

In Giappone il concetto di dipendenza è maggiormente accettato, come risulta visibile dall’estrema riverenza e rispetto che stanno alla base delle interazioni sociali nella cultura nipponica.

Proprio i piccoli introiettano un modello comportamentale di amore che poi rifletteranno successivamente nelle relazioni adulte. Allo stesso modo, le bambine introiettano il modello genitoriale materno di cura e riverenza che qui, in occidente, chiameremmo dipendenza. Dal bisogno di ricevere amore e dalla conseguente e successiva capacità di donarlo, Doi concepisce la genesi della maggior parte delle psicopatologie contemporanee, tra le quali ritroviamo la dipendenza affettiva, intesa come impossibilità di immaginarsi in assenza dell’altro, difficoltà estrema ad essere autonomi, sviluppo di legami simbiotici e di possesso. Anche in questo caso, torna con forza il vissuto infantile di abbandono, quel bisogno di amore non soddisfatto, quel vuoto incolmabile, quel desiderio di coprire nel presente un gigantesco buco affidando le chiavi della nostra vita a qualcun altro. La dipendenza affettiva è proprio questo, un donarsi senza condizioni, un amare per dieci, cento volte tanto quanto quello che ci è mancato, una speranza mai saturata di ricevere (amae) anche solo lontanamente qualcosa di simile dall’altro. Da qui, presumiamo, nasce la visione di un altro non in grado di gestire quell’amore, di ricambiarlo, diventando figura terribile e nemica agli occhi dei soggetti sofferenti. È un dislivello mai del tutto sanabile, che può portare dolore e contribuire a causare quella incessante ricerca di oggetti d’amore in grado di compensare l’enorme buco.

Nelle nostre esperienze con soggetti che presentavano un funzionamento tipico delle personalità dipendenti, nelle stanze di terapia e nei gruppi, abbiamo riscontrato che le emozioni prevalenti sono spesso il vuoto, la rabbia, l’ansia, la paura, la colpa e la saudade. Ci concentriamo brevemente su quest’ultimo vissuto, apparentemente differente dai precedenti. Spesso definito come un sentimento di forte nostalgia esistenziale verso un qualcosa di passato, adesso assente, perduto per sempre. Qualcuno che non c’è più, una città che abbiamo dovuto lasciare, un amore, una parte di noi. La genesi primordiale di un sentimento così profondo e radicato ci rende consapevoli dell’importanza delle prime relazioni precoci, della presenza che scalda (e scalderà) per la vita, diversamente da vissuti estremamente dolorosi in cui questa presenza, purtroppo, non c’è mai stata. 

L’immagine esemplificativa con cui vogliamo lasciarvi è quella di una bambina seduta sulle scalette interne di un triste condominio. 

“Fuori piove, i lampi abbagliano momentaneamente le grigie pareti attorno a me. Fanno paura, non è la luce che cerco, sono solo brevi bagliori, nessun calore. In mano ho solo una copertina. La porto sempre con me, quando mi sento sola la annuso, così sento l’odore di mamma. È mamma.”

Non è una completa assenza, ma una distanza difficilmente tollerabile, una instabilità del legame che non dà certezze, ritualità, ritmicità alle cure, un’attesa spasmodica e prolungata di un oggetto d’amore che venga a placare profonde angosce. 

La maggior parte degli autori trattati, infatti, vede nel vissuto infantile di abbandono e trascuratezza la matrice per il successivo sviluppo di elementi di dipendenza in età adulta. Un buco, una fame d’amore che deve necessariamente essere riempita anche da oggetti sostitutivi, rappresentati  da persone vere e proprie, con caratteristiche peculiari che inducono la riproposizione di una determinata dinamica di abbandono e maltrattamento. Un modello appreso in infanzia, dunque, che le persone riattivano nel presente in modo coattivo (Freud, 1920). 

La “copertina” in età adulta può diventare dunque un partner al quale ci si aggrappa per non sprofondare in una difficile, ingestibile, solitudine. Un sostegno psicologico in quei momenti può essere fondamentale, per dare la possibilità alla persona di strutturare un rapporto terapeutico sano, interiorizzare gradualmente un modello relazionale più adeguato e mitigare gli aspetti nocivi legati ai vissuti di dipendenza. In questo modo, si potrà ri-pensare e ri-narrare una storia diversa, fatta di legami relazionali di appoggio, stabili e duraturi. 

Per approfondire:

Bion, W.R. (1962). Apprendere dall’esperienza. Roma: Armando. 1972.

Doi, T. (2001). Anatomia della dipendenza. Milano: Raffaello Cortina Editore.

Freud, S., (1917). Lutto e melanconia. Opere, vol. VIII. Torino: Bollati Boringhieri.

Marazziti, D. (2005). Dipendenza da sostanza, aspetti clinici e terapeutici. Journal of Psychopathology, p. 80.

Morelli, A., Parisi, G., Marogna, C. (2019). Donne e mal d’amore. Dipendenze affettive in terapia psicodinamica di gruppo. Gruppi,  2/2019, pp 39-55.

Norwood, R. (2007). Donne che amano troppo. Milano: Feltrinelli.

Winnicott, D.W. (1952). Oggetti transizionali e fenomeni transizionali. In Winnicott, Dalla Pediatria alla Psicoanalisi. Firenze: Martinelli.